Gianello, il Napoli e i princìpi ritrovati

La sentenza della Corte di Giustizia Federale che ha derubricato l’illecito sportivo di Matteo Gianello in “semplice” violazione dei doveri di lealtà, correttezza e probità, e quindi, a cascata, ha “liberato” il Napoli, Cannavaro e Grava dalle rispettive sanzioni, ha fatto – comprensibilmente – scalpore.

Finché non saranno depositate le motivazioni, non potremo sapere in base a quale ragionamento la Corte abbia ritenuto di prendere questa decisione: chi vi scrive vorrebbe però tentare un “pronostico”, con la consapevolezza che potrebbe rivelarsi una elucubrazione totalmente infondata… ma con la certezza che, se veramente l’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte dovesse essere quello che andrete a leggere tra poco, questa decisione potrebbe avere conseguenze devastanti sulla valutazione di tutti i procedimenti, generalmente denominati “scommessopoli”, che hanno investito il nostro calcio negli ultimi due anni.

L’impressione, infatti, è che la Corte abbia ritenuto non rilevanti come illecito le condotte confessate da Gianello perché non idonee a raggiungere il risultato illecito, cioè l’alterazione del risultato.

Un principio che per anni è stato considerato una pietra angolare del diritto sportivo: la definizione “di scuola” adottata e condivisa da tutti gli operatori del settore è infatti cristallizzata quantomeno dall’Agosto 2006, quando nel giudizio di Calciopoli gli organi giudicanti precisarono (pag. 74 della relativa sentenza) che l’illecito sportivo si può ritenere perfezionato soltanto laddove tutti i vari elementi o segmenti che la compongono siano presenti e dimostrati: la volizione all’illecito, il mezzo con cui porlo in atto, ed infine la efficacia ed idoneità ad alterare il risultato di quest’ultimo.

In parole più povere: siamo tutti d’accordo sul fatto che “beccare” un tesserato che offre ad un altro una mazzetta di banconote per combinare una partita è pacificamente un illecito sportivo (a prescindere dal fatto che vada a buon fine); ma se un calciatore dice ad un avversario qualcosa del tipo “dai, non potete lasciarci vincere, che tanto per voi questa partita non conta nulla?”, oppure se dice ad un compagno “ma non potremmo vendercela questa partita, così da guadagnarci due soldi?”, senza che a queste uscite facciano seguito altri comportamenti concreti, siamo di fronte ad un  illecito (da punire con almeno tre anni di squalifica per il giocatore, e con i relativi punti di penalizzazione per la sua società di appartenenza), oppure ad un comportamento “semplicemente” sleale e antisportivo, e quindi sicuramente da sanzionare, ma in misura meno punitiva e senza estendere la punizione anche alla società?

La risposta, ovviamente, va trovata caso per caso, ed è rimessa all’attenzione e alla sensibilità dell’organo giudicante nel valutare il materiale portato alla sua attenzione: quel che è certo, però, è che per anni la “bilancia” degli organismi di giustizia sportiva è stata molto sensibile nel valutare il requisito dell’idoneità lesiva, e quindi nel ricondurre a slealtà e antisportività le “sparate” di questo o quell’altro tesserato che si riducevano, per l’appunto, a parole tanto sgradevoli quanto innocue, prive di qualsiasi effettiva potenzialità lesiva (come è il caso, obiettivamente, di Gianello).

Il problema è che negli ultimi processi sportivi susseguitisi dopo l’esplosione del bubbone-calcioscommesse la “giustizia domestica” si è totalmente dimenticata questa sensibilità, e anziché dosare la propria bilancia ha preferito brandirla come un bastone e usarla per massacrare, alla cieca, parecchi dei suoi tesserati: abbiamo visto condanne draconiane (sia ai calciatori che alle società) per una telefonata (dal contenuto peraltro sconosciuto), per un fugace saluto negli spogliatoi o in albergo (anche in questo caso, senza ovviamente conoscerne i contenuti), per il semplice fatto che due tesserati erano amici e si frequentavano al di fuori del contesto tecnico, e così via.

Se la decisione della Corte dovesse recuperare questi principi “dimenticati” negli ultimi due anni e negli ultimi processi, non sarà un “mutamento di rotta”, ma semplicemente un ritorno su un sentiero sicuro, già battuto, confortante, e da cui ci si era – inopinatamente – allontanati.

Ma a quel punto sarà necessario che qualcuno ci spieghi, e che ce lo spieghi in modo molto convincente, la ragione di questa “scappatella” della giustizia sportiva: ma soprattutto sarà necessario che qualcuno ponga rimedio, o sia costretto a porre rimedio, alle storture e alle ingiustizie causate a molti tesserati.

FletcherLynd

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